Non ne posso più: le intolleranze, raccontate da Elisabetta Darida

Con una cifra ironica non indifferente, Elisabetta Darida parla delle piccole e grandi intolleranze che costellano la vita di tutti. Il risultato è un succulento romanzo a più voci che ci fa sorridere e riflettere sui nostri tic. L’intervista di Patrizia Ruscio

Intolleranze Elementari (L’Erudita) non è soltanto la gustosa raccolta di racconti scritti da Elisabetta Darida. E’ un dito puntato verso le regole che governano la morale borghese, di cui l’autrice rovescia i paradigmi mostrandone le diversità scomode e le crepe, da cui entra la forza esilarante dei suoi personaggi. Ne risulta un colorito affresco delle nostre nevrosi, tracciato da una scrittura scorrevole e divertente che dietro all’ironia intelligente disvela tutta la gravità delle ingiustizie, siano esse inflitte o subite. Incomunicabilità, fratture, discriminazioni, disillusioni, disagio in un mondo che cambia alla velocità della luce, amore, maltrattamenti ed emancipazione sono le tematiche delle venti storie ambientate in un palazzo “sul fiume che da sotto sembra una nave”.

Come e quando è nata l’idea?
Inizialmente avevo scritto tre brevi racconti, apparentemente molto distanti tra loro sia per i personaggi, sia per il tema trattato, sia per la chiave, due ironici e uno drammatico. Ma come spesso accade, l’inconscio lavora per noi perché mi sono resa conto che – pur narrando vicende diverse – tutti erano permeati da un tema comune: l’intolleranza.
Cosa sono le intolleranze elementari?
Al di là del gioco di parole, e dell’ossimoro – perché l’intolleranza non è mai elementare, fa sempre male – ho voluto raccontare le insofferenze di tutti i giorni, le chiusure mentali, le banalità e i cliché che esprimiamo o di cui siamo vittime. Piccoli gesti e parole che spesso neppure riflettono il nostro vero sentire o quello di chi ci sta di fronte, ma che fanno parte dei luoghi comuni assorbiti negli anni, che poi vengono fuori alla leggera. Ad esempio quando ci lamentiamo degli stranieri che “vengono a rubare il lavoro a chi è nato qui”, senza riflettere che sono spesso lavori umili o faticosi che nessuno vuole più fare (e che in passato noi italiani abbiamo fatto, emigrando). Ma ho anche voluto additare alcuni veri e propri soprusi come quando, con le migliori intenzioni, i genitori “suggeriscono” un certo percorso professionale, che magari non è quello che i figli vorrebbero e che creano persone infelici. Parlami dei protagonisti, chi sono e cosa desiderano?
I personaggi sono uno spaccato della nostra società: dall’anziana signora borghese che non riesce ad accettare il modo che cambia (una società multietnica, il mutamento della geografia del quartiere, dove “i bei negozi” vengono sostituiti da “antri dove si vende robaccia”), alla donna tradita che dopo aver dato una seconda opportunità al marito lo butta fuori casa; dalla coppia affiatata sorpresa dai figli diciottenni in situazione intima (orrore: i genitori non fanno “quelle cose”, e poi sono vecchi!), al collaboratore domestico infedele che invece occuparsi dell’anziana affetta da demenza passa il tempo ad amoreggiare in casa con l’amante. Oppure ancora c’è l’immigrata di seconda generazione che vorrebbe integrarsi ma invece è ostacolata in modo violento dalla famiglia, che riconosce la propria cultura d’origine come l’unica possibile, mentre la ragazza si sente italiana (e lo è) e vuole solo una vita del tutto normale: diplomarsi, laurearsi in medicina e in futuro sposare l’uomo che amerà e non quello scelto per lei dal padre. Ci sono l’adolescente che scopre che il padre è omosessuale e si vergogna perché teme di essere preso in giro e l’anziana che, lavorando come domestica, ha cresciuto da ragazza-madre il figlio il quale – diventato oggi docente universitario e professionista di successo – la riempie di amore e le compra un appartamento nell’elegante palazzo in cui per anni ha lavorato, cosa che non tutti nel palazzo accettano di buon grado. C’è il medico che voleva fare l’accademia di Belle Arti ma non ha saputo opporsi alla famiglia che voleva per lui “un lavoro serio”. Ci sono coppie che si creano, coppie che si sfasciano, gente che soffre e gente felice. In tutto sono venti personaggi che monologano, quindi parlano in modo non filtrato, esprimendo i sogni, le frustrazioni, i disagi e le gioie di tutti i giorni. Apparentemente, ogni monologo è un piccolo mondo chiuso, con un inizio e una fine, ma ciascun personaggio cita uno o due nomi, che poi si scoprono essere protagonisti di altri monologhi. Perché nella vita, siamo tutti parte di un tessuto più ampio e le nostre singolarità si sommano e si intersecano in una ragnatela di relazioni articolate.

C’è un personaggio in cui ti identifichi di più? In tutti e in nessuno: sono “spalmata” in tutti loro, anche se la maggior parte delle storie non riflette la mia vita e molte realtà sono totalmente diverse dalla mia esperienza personale. Ma ciascuno di noi ha subito o inflitto qualcosa a qualcuno. E un bel giorno ti rendi conto che le parole e i gesti, negli anni, si sono accumulati, che rappresentano un peso anche se magari l’intolleranza è leggera, impalpabile come un velo. Che però toglie luce e aria. Avevo bisogno di sollevarlo, questo velo, anche raccontando storie estranee al mio vissuto: per quanto vengano declinati in modo particolare, il disagio e il dolore sono universali e appartengono a tutti.

E qualcuno che ami in particolar modo? Li amo tutti, ovviamente. Per alcuni nutro una salutare antipatia, altri sono più accattivanti, come il bulletto romano dall’atteggiamento vagamente razzista che poi, portato a riflettere, si ravvede; o come il paludato professore universitario, inizialmente sgomento di fronte alla decisione dei figli – entrambi! – di non voler seguire le sue orme, intraprendendo carriere artistiche precarie: capirà che hanno il diritto di scegliere il proprio futuro, anche a rischio di commettere errori, perché è giusto che inseguano i loro sogni. Sul tuo blog scrivi che i personaggi ti sono venuti a cercare, di giorno e di notte. un moto molto pirandelliano, una suggestione a riguardo? Non è una battuta: una volta che mi è apparso in modo evidente il nesso tra i primi tre racconti, ovvero l’intolleranza, veramente i personaggi si sono affacciati chiedendomi di raccontare la loro storia! Perché anche nella mia vita l’intolleranza elementare ha avuto un peso, a cominciare dal famoso “prima ti laurei poi ne parliamo”, che mi ha portato a intraprendere una strada di successo, che non è però quella che volevo, finché ho detto basta. I temi che affronti sono anche molto drammatici ma per raccontarli hai scelto un registro ironico. Di sicuro l’indole aiuta: il côté assurdo e paradossale della vita mi salta sempre agli occhi, quindi le battute e l’ironia sono il mio pane quotidiano. Ridere delle cose aiuta a sdrammatizzare e ad affrontarle con maggior distacco.

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