Disparità salariali a Monaco: un nuovo studio lo conferma

L’Istituto Monégasque de la Statistique et des Études Économiques (IMSEE) ha appena pubblicato la sua nuova analisi sugli scarti di retribuzione tra uomini e donne nel Principato di Monaco, riferita al 2024

L’Istituto Monégasque de la Statistique et des Études Économiques (IMSEE) ha pubblicato martedì 4 novembre 2025 la sua nuova analisi sugli scarti di retribuzione tra uomini e donne a Monaco. Lo studio — commissionato, come già nel 2019, dal Comitato per la promozione e la protezione dei diritti delle donne — conferma che la parità salariale resta un obiettivo da raggiungere, soprattutto nel settore privato. Secondo i dati, infatti, il salario mensile medio degli uomini nel settore privato è superiore del 18,6% rispetto a quello delle donne, una differenza che nel 2019 era del 28,5%. Tradotto in numeri, gli uomini percepiscono circa 5,10 euro in più all’ora, anche considerando le differenze nei tempi di lavoro. Tuttavia, osservando il salario medio, l’IMSEE nota che lo scarto si riduce quasi a zero: appena 0,1% a vantaggio degli uomini, ossia 1,90 euro in più al mese. È qui che entra in gioco la definizione dell’OCSE, che misura la disparità salariale di genere sul salario mediano — non sulla media — per evitare che i redditi più alti distorcano i risultati. Secondo questo indicatore internazionale, Monaco raggiunge praticamente la parità, mentre in Francia il divario è ancora del 6,2% e nei Paesi OCSE in media dell’11,5%. Un risultato che posiziona il Principato tra le economie più equilibrate al mondo dal punto di vista statistico, ma che — come osserva l’IMSEE stesso — non deve far dimenticare la realtà dietro ai numeri: le differenze di carriera, di ruolo e di accesso alle posizioni apicali restano evidenti. Nel settore pubblico, la fotografia è più incoraggiante: le donne guadagnano in media il 2,4% in più degli uomini, mentre nel 2019 il vantaggio femminile era appena dello 0,7%. Inoltre, quasi la metà dei posti dirigenziali (49,1%) è oggi occupata da donne, rispetto al 47% di cinque anni fa. Eppure, analizzando più in profondità le categorie professionali (A, B e C), gli indici retributivi maschili restano in media più alti in ciascun livello. L’IMSEE sottolinea che, nel corso dell’ultimo decennio, gli scarti salariali nel settore privato si sono ridotti di circa dieci punti per il salario mensile e di sei punti per quello orario. Un progresso innegabile, ma lento, e ancora lontano da quella parità sostanziale che i numeri dovrebbero finalmente rendere superflua da misurare. Viene allora spontaneo chiedersi: serviva davvero un comitato per scoprire che le donne guadagnano ancora meno?Forse no. Ma serve — e servirà ancora — un organismo capace di tradurre questi numeri in politiche concrete, di promuovere la trasparenza salariale nelle imprese e di sostenere la parità non come slogan, ma come pratica quotidiana. Perché, finché dovremo ancora contare euro e percentuali per dimostrare che il lavoro femminile vale tanto quanto quello maschile, la statistica non sarà che lo specchio di un’uguaglianza ancora da conquistare. Forse il ruolo del Comitato per i diritti delle donne, più che “scoprire” l’esistenza della disparità, dovrebbe essere quello di spingere le aziende private a rendere la trasparenza salariale una prassi, non un obbligo statistico. Perché il vero progresso non si misura solo nei numeri, ma nel momento in cui smetteremo di doverli contare per dimostrare che le donne valgono — letteralmente — quanto gli uomini.

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