Lettera a una scuola pubblica in difficoltà
Incontro con Cristina Petit, autrice di un libro sulla scuola che è molto di più di una dichiarazione
d’amore, quasi un flusso di coscienza su un’istituzione in difficoltà, dove solo in teoria i ragazzi sono tutti
uguali. Di Patrizia Ruscio
Ci voleva qualcuno che parlasse della scuola pubblica così com’è, senza peli sulla lingua. Ci ha pensato
Cristina Petit in ‘Non lasciamoli soli. Lettera d’amore a una scuola abbandonata (Solferino)’, un racconto
su una scuola pubblica vissuta dall’interno, con tutte le problematiche di un’istituzione che ancor prima
degli edifici fatiscenti, sta lasciando andare in rovina gli spiriti, gli entusiasmi, la spinta motivazionale. Ne
emerge l’affresco di un apparato educativo fatto di persone e non solo di programmi di studio. Sono
persone i bambini e i ragazzi, con le loro fatiche e potenzialità. Sono persone gli insegnanti, con le loro
capacità e fragilità. Ma la scuola, per come funziona ora, non valorizza né i primi né i secondi.
Com’è nata l’idea di scrivere un libro su questo argomento?
L’idea nasce dalla mia esperienza di insegnante elementare nella scuola pubblica, venti anni in cui ho
vissuto tante situazioni, alcune delle quali faccio ancora fatica a tollerare.
Quali sono queste situazioni?
La scuola pubblica dovrebbe essere un’istituzione flessibile e in grado di accogliere tutti, invece è tarata su
chi è bravo, su chi non ha problemi e offre, fin da giovanissimo, una prestazione alta. Le classi sono realtà
molto complesse, popolate da bambini e famiglie di ogni tipo che vanno accolti sempre e comunque,
invece chi è fragile o chi vive una situazione familiare particolare resta indietro.
Ha in mente un caso in particolare?
Prendiamo i ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento. Sappiamo che vanno seguiti in un certo
modo e da parte degli insegnanti dovrebbe prevalere il desiderio di conoscere un nuovo modo di
apprendere, dopotutto fa parte delle loro sfide educative e didattiche. Invece, capita spesso che gli stili
cognitivi diversi non vengano rispettati e chi non è all’altezza della prestazione venga tagliato fuori,
nonostante ci sia ormai una grande letteratura sui DSA.
La scuola, insomma, non è uguale per tutti.
Non tutti vengono accolti allo stesso modo, la precedenza è data a chi fin dall’inizio non da troppi
problemi. Le diversità riguardano anche gli insegnanti: c’è chi si immola, chi prova in ogni modo a far
bene il suo mestiere, ma c’è anche chi resta indifferente davanti a chi rimane indietro. Allora c’è da
mettersi una mano sul cuore e chiedersi se questo è giusto e se è ciò di cui la scuola ha bisogno.
In base alla sua esperienza che cosa si potrebbe fare di più, per attutire queste differenze?
La prima cosa che si dovrebbe fare è diminuire il numero degli alunni per classe. Quando ci sono le
epidemie delle influenze, e le classi si decimano, si capiscono tante cose. Il minor numero di presenze
consente di creare una migliore relazione alunno-maestra, una relazione in cui ci si vede e riconosce.
La sua è una lettera d’amore a un’istituzione in affanno, ma cerchiamo di vedere i punti di forza.
Il punto di forza è che si tratta di un’istituzione pubblica. Le scuole private funzionano sicuramente meglio
però hanno studenti talmente omogenei che non diventeranno mai ragazzi preparati ad affrontare una
società complessa come la nostra. La scuola pubblica allena a vivere tra esseri umani di ogni tipo, e
questo credo sia una cosa importantissima.
Il libro come è stato accolto dai suoi ex colleghi?
Ho dato voce a cose che erano già nelle corde di alcuni che, a loro volta, lo hanno accolto bene. Gli altri
probabilmente non lo hanno letto e neanche lo leggeranno. La vera misura, però, la danno le persone che lo hanno letto pur non conoscendomi. In molti mi scrivono dicendo che condividono il mio punto di vista
e tra di loro ci sono anche dirigenti scolastici aperti al dialogo.
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