Tra ricerca e gender balance: parla Maria Chiara Carrozza, la prima donna presidente del Cnr

Maria Chiara Carrozza è la prima donna alla guida del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto romano a due passi dalla Sapienza che da 100 anni esatti promuove la ricerca scientifica in ogni campo. Ha un entusiasmo contagioso e una inesauribile fiducia nell’AI, che non porterà via il lavoro a nessuno. Ce ne parla la nostra Patrizia Ruscio

Ogni giorno siede alla scrivania “famosa”, quella occupata da Guglielmo Marconi, e camminare tra i ritratti dei suoi predecessori, tutti uomini, le fa un certo effetto. Ha una spiccata attitudine alla precocità – “Sì, è vero, sono stata precoce, ma devo molto alla Scuola Superiore di S. Anna. Qui ho trovato un ambiente stimolante che premia la leadership dei giovani”, commenta – e un curriculum da record: classe 1965, pisana, figura nella rosa delle 25 donne più influenti nel settore della robotica, è stata la più giovane rettrice d’Italia, eletta nel 2007 a 42 anni, e ha insegnato nelle università di tutto il mondo. All’età di 48 anni è stata eletta Ministra dell’Istruzione, Università e della Ricerca nel governo Letta e in quella circostanza sedeva a un’altra scrivania eccellente, stavolta quella di Benedetto Croce.

Cosa significa per lei essere la prima donna a capo del Cnr?

Significa molto dal punto di vista del cambiamento. In passato ci sono sempre stati uomini a capo del Cnr ed era scontato che fosse così. Oggi, invece, che la nuova sensibilità verso la parità di genere si fa maggiormente sentire anche io sento una grande responsabilità nei confronti del mio ruolo.

A proposito, a che punto è l’emancipazione delle donne in campo scientifico?

L’emancipazione delle donne sta avvenendo in tempi più recenti basti pensare che in passato, ad esempio, tutti i rettori erano di genere maschile così come i presidi di facoltà e i ricercatori. Oggi ogni istituzione, università o ente di ricerca predispone un gender balance plan orientato alla parità di genere. Il mutamento è in atto e gli effetti si vedranno sperabilmente nei prossimi anni.

Come è nata la sua passione per le discipline scientifiche?

Merito della professoressa di fisica del liceo. Utilizzava dei libri americani molto coinvolgenti basati sulla fisica sperimentale e io cominciai a leggerli, scoprendo che si trattava di una materia molto affascinante.

In un’intervista ha anche dichiarato di nutrire una forte passione per la letteratura francese, al punto da pensare di dedicarsi al suo studio.

È vero, sono stata e sono ancora appassionata di letteratura, lingua e cultura francese. Il mio libro preferito è “Les petit poem en prose” di Boudelaire.

Poi, però, ha scelto la robotica. Qualcuno pensa che sia la massima risorsa del futuro, altri credono che ci porterà via il lavoro e cambierà l’assetto della società. Lei cosa ne pensa?

Che ci sarebbe stato un conflitto fra la robotica e il lavoro l’aveva già previsto Asimov ne “Io, robot”. Credo che la robotica faccia parte del progresso del mondo del lavoro e potrebbe essere in parallelismo, affiancamento o in conflitto con il lavoro umano. Io l’ho sempre vista in affiancamento. Immaginiamo, ad esempio, che una parte del lavoro manifatturiero venga affidata a un robot. In tal senso l’intelligenza artificiale potrebbe svolgere il lavoro ripetitivo e usurante di un operaio e riqualificare il lavoro umano.

In Italia assistiamo quotidianamente alla fuga dei cervelli. Come mai e cosa trovano all’estero che qui non trovano? E cosa potrebbe fare lo Stato per trattenerli?

Più che nella retorica della fuga dei cervelli, secondo me il problema consiste in uno sbilanciamento perché gli italiani che lavorano ad esempio in Germania, occupano livelli più alti, nell’amministrazione e nell’impresa. Dobbiamo chiederci perché non attraiamo talenti e perché non li tratteniamo. I giovani vanno all’estero alla ricerca di condizioni lavorative migliori che noi non siamo in grado di offrire. Se mancano le infrastrutture, i servizi e tutto quello che serve a lavorare in sicurezza e con strumenti adeguati, i giovani tenderanno a cercarle in altri posti.

I suoi figli hanno seguito le sue orme?

I miei figli hanno seguito il loro percorso in autonomia e quindi non hanno giustamente seguito le mie orme, hanno preso sicuramente esempio dai modelli familiari ma hanno poi costruito la loro vita e sono molto orgogliosa di loro e dei valori in cui credono.

Cosa si è portata dell’esperienza al Don Gnocchi?

Il Don Gnocchi è una grandissima e bellissima comunità dalla quale non mi distaccherò mai e quando avrò più tempo tornerò anche come volontaria. Di questa esperienza mi porto dietro gli occhi dei pazienti che riuscivamo ad aiutare, lo sguardo di riconoscenza di persone che ho aiutato con una soluzione tecnologica o anche semplicemente dialogando e ascoltando il loro problema. Il rapporto con i pazienti è la cosa più bella che si possa immaginare.

Un augurio alle nuove generazioni.

Mi auguro di non leggere più di torture inflitte ai giovani iraniani e della negazione allo studio delle donne afghane.

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