Epica della mimesi. Intervista con lo sceneggiatore Alessandro Bencivenni

Anche gli sceneggiatori sono esperti di mimesi, spiega lo sceneggiatore Alessandro Bencivenni, nonostante l’emulazione sia appannaggio degli attori, devono possedere una buona dose di comicità per entrare nei loro per mascherarsi da personaggio, seppur con un certo distacco. Una bella scoperta grazie all’intervista della nostra Patrizia Ruscio

Alessandro Bencivenni

La poetica di Aristotele, rimasta nascosta per una decina di secoli e riemersa nel Medioevo, è una delle opere che ci fornisce una maggiore descrizione dell’imitazione scenica, la cosiddetta mimesi. “È straordinario come un filosofo sia riuscito a definire nel quarto secolo avanti Cristo i principi che tuttora reggono il dramma, il racconto e la narrazione, fornendo strumenti ancora oggi ritenuti validissimi da noi addetti ai lavori”, commenta Alessandro Bencivenni, sceneggiatore e docente di sceneggiatura presso la Rufa (Rome University of Fine Arts) e alla Gian Maria Volonté. Alessandro ha lavorato alla sceneggiatura dei più recenti episodi di Fantozzi, il personaggio che meglio di chiunque altro incarna le debolezze e le meschinità degli italiani, facendoci sorridere. Intervista

Alla voce mimesi, sul vocabolario c’è scritto “Imitazione condotta a fini scenici o burleschi.” È una definizione che sembra dire molto sul lavoro di sceneggiatore.

Beh, questa definizione si adatta ancora di più alla recitazione. Ma certo, oltre gli attori, anche gli sceneggiatori devono avere una loro “quota Zelig” per potersi immedesimare coi loro personaggi, seppure con un certo distacco. Il dizionario accenna infatti al burlesco: e questo non sembra riferirsi tanto al genere comico ma a una componente ironica nel processo di mimesi, quindi a una sorta di parodia o di consapevole e ironica imitazione.

In cosa consiste la bellezza del suo lavoro?

Nel giocare con la parte peggiore di sé. La commedia si alimenta dei difetti umani e le maschere con le quali ci siamo cimentati avevano tutte dei difetti mostruosi: dalla grettezza di Fantozzi al cinismo dei personaggi interpretati da De Sica nei vari cinepanettoni. Eppure il pubblico ha accettato di guardarsi con divertimento in questo specchio distorto.

E gli aspetti critici?

Che è difficile al contrario trasmettere in maniera divertente dei valori positivi. Bisogna infatti evitare di eccedere nell’indulgenza: ridere dei difetti non significa assolverli, ma deprecarli senza per questo fare la predica allo spettatore. È un equilibrio difficile e credo che il successo di Zalone sia stato decretato proprio dalla sua capacità di mantenere questo difficile equilibrio: mimetizzarsi da uomo qualunque senza essere qualunquista. Villaggio otteneva lo stesso risultato con un’altra chiave: quella dell’iperbole apocalittica.

Tra i film a cui ha lavorato ci sono molti episodi di Fantozzi, un personaggio molto mimetico, (che si nasconde eppure paradossalmente è così visibile). Ci parli di lui.

Con Fantozzi, Villaggio ha creato un’epica della mediocrità. Ha iniettato nella commedia italiana, tradizionalmente realistica, una comicità da cartoon. Le sue gag dovevano molto all’animazione e, a rovescio, Homer Simpson è un discendente inconsapevole di Fantozzi. Nel primo film della saga fantozziana al quale ho collaborato – “Superfantozzi”, del 1986 – ci siamo divertiti proprio a sottolineare questa parentela coi fumetti e i cartoni animati.

Com’era Paolo Villaggio?

Era pieno di contraddizioni: un genovese con la vocazione allo sperpero, un comico che soffriva a non essere preso sul serio, un genio creativo afflitto da pigrizia cronica. Non veniva quasi mai alle riunioni di sceneggiatura e così una volta ci stupimmo che ci chiedesse se l’indomani ci saremmo visti di mattina o di pomeriggio. “Di mattina”, rispondemmo. “Non potremmo fare nel pomeriggio?”, ci chiese. “Ma a che scopo? Tanto poi non vieni”, obiettammo. “Sì, ma preferisco non venire di pomeriggio”, replicò sardonico.

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